La consapevolezza dell’appartenenza è premessa per valorizzare l’ambiente naturale e culturale, e anche coscienza del valore patrimoniale dei suoi beni comuni. Come, ad esempio, la gestione comunitaria dei beni collettivi di uso civico, per la produzione di beni, servizi e lavoro per la comunità e per il territorio. La politica dovrebbe perciò riconoscere questo germoglio alternativo di organizzazione sociale, difenderlo e farlo crescere.
Individui produttori e consumatori (non più comunità degli abitanti di un luogo), nel delirio di una crescita infinita di produzione e circolazione di merci, finiscono col divorare e devastare il proprio stesso ambiente di vita.
La vittoria del capitalismo sul socialismo storico gli ha dato le vertigini, è caduta ogni remora e tutto è mercificato. La patologia finanziaria è nel sistema; le stesse imprese sono solo una delle possibili forme di crescita del capitale, non per produrre beni e servizi ma per produrre profitti.
La ricchezza è concentrata in poche avide mani, e anche se cresce il Pil la gente è più infelice. Così ricchezza, benessere e mobilità sociale si trasformano in produzione di povertà, degrado ambientale e riduzione della qualità della vita. Ma anche in mancanza di autodeterminazione, e perdita totale di sovranità delle persone e delle comunità sulle forme materiali e simboliche della propria esistenza.
Una politica che valorizzasse gli ambiti italiani in cui si è “naturalmente” o “storicamente” forti (agroalimentare, artigianato e turismo) attiverebbe il massimo delle energie latenti accumulatesi nel corso del tempo nel corpo sociale.
Ogni nucleo di popolazione, infatti, ha in sé i semi dello sviluppo, anche economico, ma purtroppo anche pregiudizi e blocchi culturali che impediscono loro di germogliare.
Aree apparentemente insignificanti o letteralmente depresse sono invece simili a molle caricate da secoli, e se si creano le condizioni per il loro rilascio possono cambiare il volto di un paese, perché prima o poi sono le idee e non gli interessi preesistenti a prevalere.
Se con l’intuizione del buon senso (non del senso comune) si avvia un progetto locale di sviluppo, non solo economico (e il caso di Pesariis, in Carnia, lo dimostra - www.pesariis.it), ci si oppone anche all’unica disastrosa politica del “lasciare fare, lasciar passare”.
Sviluppo è allora crescita della società locale e della sua capacità di autogoverno. La consapevolezza dell’appartenenza è premessa per valorizzare l’ambiente naturale e culturale, e anche coscienza del valore patrimoniale dei suoi beni comuni. Come, ad esempio, la gestione comunitaria dei beni collettivi di uso civico, per la produzione di beni, servizi e lavoro per la comunità e per il territorio. La politica dovrebbe perciò riconoscere questo germoglio alternativo di organizzazione sociale, difenderlo e farlo crescere. |
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