Beni pubblici, beni privati. Generalmente la differenza fra loro è nella condivisione e non appropriabilità dei primi contro la privatezza e l’alienabilità dei secondi. In altri termini i primi sono pubblicamente fruibili e devono conservare questa fruibilità (non possono essere alienati o distrutti). Si tratta dunque di due categorie che tutti sappiamo subito indicare con qualche esempio: l’aria, le strade fra i primi; oggetti, campi, case fra i secondi. Con esempi via via più numerosi e complessi si potrà procedere a lungo nella classificazione e nell’individuazione di altre caratteristiche differenze. Gran parte di ciò che conosciamo è definibile come “bene” e sarà abbastanza facile collocare ognuno di essi o fra i privati oppure fra i pubblici. Ma questa classificazione a un certo punto si complicherà. Proviamo a pensare ai Beni Culturali; dovremo concludere che essi sono sempre beni pubblici, magari per una minima parte, anche se di proprietà privata. Infatti secondo le leggi in vigore in Italia se un bene privato è dichiarato “bene culturale” (con il c. d. “vincolo”) una parte dei diritti del proprietario viene ristretta, limitata a favore del diritto, pur piccolo, della collettività (diritto pubblico appunto) per la sua “conservazione” e per la sua “fruizione”. Da quel momento il proprietario dovrà sottoporre alla collettività (e per essa all’Ufficio preposto) ogni sua intenzione di intervento, modifica, spostamento, cessione del bene, egli non potrà esportarlo né distruggerlo. Si tratta dunque di una tipologia di beni che, quando non siano interamente pubblici, saranno collocati in una nuova categoria, intermedia fra le due che avevamo premesso.
Fra i beni culturali sono compresi i beni “paesaggistici”. Sono così chiamate quelle parti di territorio più o meno vaste, che alla luce della nostra storia e delle nostre conoscenze presentano per noi particolare bellezza, interesse, complessità o peculiarità. Con il “vincolo paesaggistico” questi territori, quando fossero già di proprietà pubblica, rafforzano la loro condizione di bene pubblico altrimenti entrano nella categoria intermedia dei beni pubblico-privati di cui ho appena parlato; come per gli altri beni culturali la Legge impone la loro conservazione e ne consente la fruizione pubblica. Nel 1985 la legge detta “Galasso”, applicando una legge del 1939 (che fino ad allora aveva avuto applicazioni molto limitate), ha dichiarato bene paesaggistico larga parte del territorio statale delimitandola con semplici indicazioni geografiche (fasce di 300m dalle coste, montagne al di sopra 1600m di quota, ecc.), vegetazionali (le aree boschive) o utilizzando altre caratteristiche (i parchi delle ville vincolate, le aree archeologiche).
Una delle indicazioni della “Galasso” riguarda le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici; si tratta di una delimitazione basata su una caratteristica storico-giuridica. Sono aree di proprietà pubblica ma normalmente non appartenenti al Demanio pubblico (cioè all’intera collettività nazionale) bensì a gruppi molto più ristretti, locali, che di quelle aree si servono o si servivano in passato per le proprie attività produttive (generalmente agricole, forestali, zootecniche), sono l’antico retaggio di un uso collettivo del territorio di cui restano molte testimonianze documentali ma pochissima memoria nelle collettività da esso interessate. Queste aree presentano dunque oggi un doppio interesse pubblico: quello originale condiviso dalla comunità che le utilizza o le utilizzava, legato alla storia della comunità stessa (che è anche per molti aspetti la nostra) e quello paesaggistico-culturale, di tutti, che la Legge le ha assegnato. Per riappropriare al patrimonio collettivo questo tipo di Bene Culturale, per renderlo fruibile (ma utilizzabile solo dalla comunità ristretta) e non più alienabile e appropriabile è necessario conoscere e far riconoscere l’interesse e il diritto pubblico su tutte le aree (agricole) soggette ad uso promiscuo da parte di una comunità di individui.
Da secoli sottoposte a continue “privatizzazioni” con il pretesto che frenavano lo sviluppo delle comunità alle quali appartenevano, ma in realtà per raccogliere fondi da parte dei vari “governi” o delle comunità stesse che le mettevano all’asta, per propagandare operazioni di “bonifica” o vittime di “investimenti” pubblici di riordino fondiario, queste aree hanno sempre finito per arricchire chi se ne appropriava comprandole, nei casi migliori, per pochi soldi. Si pensi agli oltre 5000 ha di bosco planiziale e umido distrutti negli anni 30 fra Bagnaria Arsa, Gonars, San Giorgio di Nogaro e Torviscosa, o alla bonifica di migliaia di ettari di paludi (ma viste oggi sarebbero “zone umide”) a Sud della Stradalta, ebbene tutte queste aree (enormi se rapportate alle dimensioni della nostra regione) oggi sono di proprietà privata asservite ad una agricoltura sovvenzionata dunque praticamente un peso per la collettività ma un capitale di elevatissimo valore commerciale per i proprietari. Avrebbero invece un inestimabile valore storico, ecologico e turistico pubblico se fossero rimaste “gravate” dagli usi civici di stramatico, legnatico, pascolo che i “comuni” a Nord e a Sud delle risorgive vi hanno esercitato forse per un millennio. Le aree “gravate” da usi civici superstiti sono comunque ancora molte e vaste nella nostra regione (soprattutto in Carnia). A volte non sono censite come tali ma iscritte fra le aree demaniali o nelle proprietà comunali. Particolarissime aree di uso civico sono le “strade vicinali” o “consorziali” o altrimenti definite ma comunque “campestri” riclassificate tutte come Comunali in base al nuovo Codice della Strada.
Non conosco finora nessuna azione pubblica rivolta al loro riconoscimento come “Bene Culturale”. Sono state sempre dimenticate perché “pubbliche”, perché non produttrici di reddito e perché escluse dai terreni catastali imponibili (non hanno numero, né area). Eppure per antico uso sono sempre appartenute indivise ai proprietari o affittuari frontisti che le utilizzavano (e le utilizzano) che vi esercitavano il diritto di sfalcio in cambio del dovere alla manutenzione periodica. Per consentire queste manutenzioni una vecchia legge degli anni ’60 istituì i “consorzi obbligatori” fra i frontisti (al 50%) e l’amministrazione comunale (50%) e da allora il degrado è stato inarrestabile. L’eliminazione dei fossi, parti inscindibili dalle strade stesse, il restringimento, il danneggiamento, l’abbandono e infine l’appropriazione o la vendita da parte dei Comuni autonominati “proprietari”. Applicare per esse la Legge Galasso sarebbe l’occasione per sancire l’importanza culturale, permettere la conservazione, la fruibilità del tessuto viario del paesaggio agrario della nostra regione. Ma il diritto pubblico avrà istituzioni in grado di propugnarlo solo se le collettività titolari di questo diritto ne saranno coscienti.
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