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"La Vicìnia"
Novembar dal 2003
 

METI IN VORE LA CONSTITUZION

[Giovanni Gabrielli, docent di Derìt civîl (de relazion: “La Ministrazion de antighe propietât coletive” - Zgonik 30.III.03)]
Le 29 Jus/Comunelle e Srenje/Vicìnie del Carso triestino il 30 marzo si son date appuntamento a Zgonik/Sgonico per l’assemblea generale della Comunanza “Agrarna Skupnost”. Insieme ad oltre 400 persone, c’erano Luigi Cesare Olivetti, presidente dell’Associazione nazionale degli usi civici e proprietà collettive di Firenze, Stefano Lorenzi, segretario delle Regole d’Ampezzo, e Martino Kraner, presidente dell’Associazione Consorzi Vicinali della Valcanale. Il prof. Giovanni Gabrielli, docente di Diritto civile, ha tenuto la prolusione su “L’Amministrazione dell’antica proprietà collettiva”. Jus e Srenje sono comunioni familiari di diritto privato senza fini di lucro che esercitano in comune il diritto di proprietà su antichi patrimoni agro-silvo-pastorali e su beni e servizi connessi o successivamente acquistati.«La lotta della nostra gente per difendere la terra riscattata dal giogo feudale con il proprio lavoro, fatica e denaro, – afferma il coordinatore dell’“Agrarna Skupnost”, Carlo GrcicŠ – dura da secoli. In questo periodo ci si è dovuti scontrare con varie autorità, che non sopportavano che superfici così vaste di territorio fossero di proprietà e nel godimento dei soli abitanti sloveni del circondario. Il fatto che, dopo decenni, la gente si sia nuovamente organizzata e voglia far valere i propri diritti, testimonia che la coscienza sulla proprietà effettiva di questa terra è viva. Da ciò nasce anche la coscienza, il ruolo ed il significato della terra per l’esistenza della comunità slovena». In questo periodo, numerose Jus e Srenje hanno acquisito personalità giuridica e sono state ufficialmente riconosciute da parte della Giunta regionale (ultime in ordine di tempo “Obcina Slivno”, con sede nel Comune di Devin NabrezŠina/Duino Aurisina, “Draga Comune” e “Comune di Borst”, con sede a Dolina/San Dorligo della Valle). Pertanto, il presidente Riccardo Illy prosegue sulla strada dei riconoscimenti delle Comunelle che è stata aperta dalle precedenti Giunte di Roberto Antonione e di Renzo Tondo. «Le Comunelle stanno vivendo un momento molto importante della loro vita – sottolinea GrcicŠ – e l’ottenimento del riconoscimento ufficiale indica che la Proprietà collettiva è meritevole di particolare attenzione da parte delle autorità».

Si dice, ed è un rilievo noto a tutti gli studiosi del diritto, che non esiste la proprietà al singolare. Esistono le proprietà al plurale ed è abbastanza facile rendersene conto: che cosa ha in comune la proprietà di un francobollo o di un orologio con la proprietà di titoli azionari o con la proprietà di immobili? Nell’ambito degli immobili, che cosa ha in comune la proprietà terriera con la proprietà degli edifici? Certo, i codici cercano di dare una definizione unitaria. C’è una definizione unitaria del diritto di proprietà anche nel nostro Codice Civile come in tutti i moderni; ma al di sotto dell’apparenza esistono statuti differenti e non soltanto differenti in ragione del tipo di bene che del diritto di proprietà forma oggetto, ma anche in ragione del luogo dove il bene, se immobile, si trova (...). Grosso modo possiamo dire che la nozione di proprietà con la quale noi facciamo i conti ogni giorno è ancora quella della tradizione, la nozione consegnata ai codici dell’Europa moderna dal diritto romano. Con un’espressione molto bella e molto efficace fu detto che il concetto che gli antichi Romani avevano della proprietà esprime la feroce solitudine del diritto quiritario: il proprietario è ferocemente solo. è lo «Jus excludendi alios». Certo, anche i Romani dovettero accettare l’esistenza della comproprietà, della comunione. Se non altro perché quando ogni proprietario, pur ferocemente solitario, muore, spesso ha più eredi, e questi sono comproprietari necessariamente (...).
I Romani e i codici moderni sulle loro tracce dovevano accettare la realtà della comunione, ma l’accettavano mal volentieri. Il diritto romano e il diritto dei codici guarda con sfavore alla comunione. Perché, si dice con un’espressione antichissima, che la comunione è «mater discordiarum»: dove c’è comunione, lì ci sono liti; è quindi opportuno, ed è compito del diritto, fare in modo che le comunioni durino meno possibile. Se la comunione provoca controversie, essa ostacola, secondo questa visione, l’ottimale sfruttamento dei beni, perché ciascun proprietario dà intralcio all’altro, pone limite all’altro; così le iniziative volte al miglioramento non decollano. Lo strumento al quale la tradizione romanistica ed i codici moderni affidano principalmente questo loro sfavore verso la comunione è il diritto allo scioglimento (...).
A questa comunione della tradizione romanistica si affianca e in qualche misura si contrappone una comunione diversa, che ha un’origine storica diversa. è quella comunione che con parola tedesca viene detta «in gesamter Hand»: comunione a mano intera, comunione senza quote. Si può dire con un’espressione efficace che nella comunione romana un gruppo di persone esiste perché esiste una proprietà che per una ragione o per l’altra è di tutte, sicché bisogna in qualche modo, sia pure di malanimo e con occhio di sfavore, regolare questo gruppo. Nell’altra comunione, nella comunione germanica, il diritto è comune perché esiste il gruppo: non è che il gruppo sorge perché c’è un diritto in comune, ma esiste un gruppo che collettivamente acquista i beni (...).
Nella comunione romana si entra nella comunione perché si acquista una quota: ciascuno dei comproprietari può disporre della propria quota e con ciò sostituisce l’acquirente a se stesso all’interno del gruppo dei comproprietari. Nella comunione della quale invece stiamo parlando, in questa comunione, detta «in gesamter Hand», il singolo non può affatto disporre della sua quota. La quota è indisponibile, gli appartiene perché membro del gruppo; se cessa di essere membro del gruppo, non è più titolare del diritto, non se lo porta dietro, non ne può disporre proquota, perché la quota non esiste. Già dai tempi di Napoleone questi tipi di proprietà estranei alla tradizione romana, fatta propria dai codici moderni, cominciarono ad essere guardati con ostilità dalle autorità centrali (...).
Per lungo tempo questi istituti antichi, rimasti ai margini della modernità e guardati con ostilità, furono combattuti dal legislatore. Questa battaglia conobbe un momento decisivo, nell’ambito dell’ordinamento italiano, con la legge fondamentale sugli Usi civici del 1927 (...). Non era, come tutti sappiamo, un tempo favorevole alle autonomie, al riconoscimento delle autonomie dei corpi intermedi: non era un tempo dove la preoccupazione di garantire le libertà fosse in cima ai pensieri del legislatore. Vero era, anzi, il contrario. Di tutto questo, nel nostro piccolo campo, è specchio la legge sugli Usi civici, che potremmo anche guardare con rispetto, come si guarda con rispetto qualunque monumento storico, se in un tempo come il nostro, che è diverso, taluno non pretendesse ancora di applicarla. Vi sono, per ciò che ci riguarda più da vicino, in questa legge del 1927 norme che riguardano la nostra materia. I terreni delle associazioni (associazioni erano chiamate qui le Associazioni agrarie, le Comunelle, le Comunioni, i gruppi comproprietari), sia che passino ai Comuni o alle frazioni sia che restino alle associazioni stesse, devono essere aperti agli usi di tutti i cittadini del Comune o della frazione. L’idea è evidentemente questa: il Comune è un ente pubblico locale, il cui podestà è nominato dal Governo; è quindi uno strumento del Governo, nel tempo della legge della quale stiamo parlando. Le associazioni sono, e questo è detto esplicitamente nella relazione a questa legge presentata al Senato del Regno, sono spesso gruppi di «facinorosi»; è quindi ovvio che la loro proprietà, se possibile, debba passare al Comune e che, se proprio non è possibile, debba restare aperta agli usi di tutti i residenti del Comune.
Chiunque viene a risiedere nel Comune ha gli stessi diritti sulle terre degli appartenenti alle comunità “ab antiquo” proprietarie. C’è di più: secondo la norma dell’art. 23, il ministero per l’Economia nazionale potrà procedere allo scioglimento delle associazioni quando vi siano motivi per ritenere inutile o dannosa l’esistenza di esse (...).
Ma c’è anche una terza norma che voglio segnalarvi: essa dice che i terreni e i beni passati ai Comuni e alle frazioni saranno amministrati a norma delle leggi comunale e provinciale, a profitto dei frazionisti. Ma con le norme della stessa legge comunale e provinciale a profitto dei frazionisti saranno amministrati anche i beni delle associazioni conservate: non è detto che queste si sopprimano; ma anche se si conservano, i loro beni sono amministrati a norma della legge comunale e provinciale a profitto di tutti i frazionisti e aperte agli usi di tutti i residenti nel Comune o secondo il caso nella frazione. Il disegno è lucidissimo. Ed è anche bene attuato. è ovvio che questo disegno è incompatibile con la Costituzione del 1948, perché rappresenta un modo di vedere la realtà che è agli antipodi di quella della Costituzione. Ci sono voluti molti anni, come in tanti altri campi, perché la Costituzione cominciasse anche qui a trovare attuazione. L’ha trovata per ora soltanto a livello di legge, con le leggi sia nazionale (quella sulla montagna del ’94 n. 97) sia regionale del ’96. Queste leggi attuano un principio opposto a quello che ispira la legge del 1927: un principio la cui espressione massima è l’art. 2 Cost., dove si dice che lo Stato riconosce e valorizza tutte le formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dei singoli uomini. Le nuove leggi, fedelmente attuando questo principio, si propongono anche di valorizzare le antiche comunità di proprietari: riconoscerle e valorizzarle. Ho detto prima, però, che nel 1927 si avevano le idee chiare e si sapeva anche come attuarle.
Devo dire che negli anni ’90 del ’900 o nei primi anni del 2000 si avranno forse le idee chiare, ma non si sa, almeno nel campo giuridico, come attuarle. Se voi ponete a raffronto la precisione tecnica con cui lucidamente il disegno politico è attuato nella legge del 1927 con la genericità e la pochezza tecnica della legge sulla montagna, e ancor più, devo dirlo, della legge regionale, non potete che convenirne. Sento che una legge regionale rinnovata è in preparazione; non posso che rallegrarmene e spero che sarà all’altezza. Una cosa però, per non chiudere su una nota negativa, vorrei qui ricordare. C’è nella legge nazionale sulla montagna una disposizione che si tende a trascurare quando si tratta dei problemi del rapporto fra le associazioni oggi riconosciute in forza delle nuove leggi e gli enti pubblici locali. Gli enti pubblici locali stanno continuando a comportarsi come se il riconoscimento non fosse intervenuto, continuano ad applicare la legge del ’27. Questo è colpa del legislatore, non degli amministratori degli enti pubblici locali: un legislatore tecnicamente responsabile avrebbe dovuto regolare questi problemi con molta precisione, per evitare che gli amministratori degli enti pubblici locali si trovassero nella condizione di doversi interrogare su ciò che devono fare e, magari per timore di qualche zelante o zelota, finissero per fare il contrario di ciò che vorrebbero, per timore di essere considerati responsabili di violazioni. Allora, su questo punto (...) vorrei ricordare che nella legge sulla montagna n. 97 del ’94 c’è una disposizione secondo la quale fino alla data di entrata in vigore delle norme regionali previste nel comma 1 continuano ad applicarsi le norme vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge in quanto con essa compatibili.
Tutte le norme della legge del 1927 sulle antiche proprietà collettive sono, così oggi abrogate, e già lo erano nel ’94, nella misura in cui non siano compatibili con le norme nuove. Allora non occorre, credo, essere tecnici del diritto, per capire che non è compatibile con una legge la quale solennemente dichiara di volere valorizzare le antiche proprietà collettive, riconoscendo personalità giuridica alle associazioni dei proprietari, una norma la quale dice che le terre di questi proprietari sono aperte all’uso di tutti i residenti del Comune; che razza di proprietà è, come si fa a dire che si vuole valorizzare la proprietà di Tizio e considerare tuttora vigente una norma la quale dice che nella proprietà di Tizio può entrare ogni residente nel circondario?
Non è compatibile con la nuova legge la norma che dice che i beni anche delle associazioni conservate sono amministrate a norma della legge comunale e provinciale, perché essa non è compatibile con il riconoscimento della proprietà. Non si può dire che i beni di Tizio sono amministrati dal Comune a norma della legge comunale e provinciale. Non si può dire che è ancora consentito al Governo di sciogliere le associazioni per motivi attinenti alla loro ritenuta dannosità o inutilità. Cioè tutte quelle norme del 1927, di cui ho fatto prima inventario, sono abrogate (...).