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"La Vicìnia"
Jugn dal 2003
 

Lis tieris civichis di Plan di Cjaval, di Pulcinic, di Buduee e dai magrêts a nort di Pordenon
PROPIETÂTS COLETIVIS TAL FRIÛL OCIDENTÂL

[Roberto Castenetto “Una guerra a colpi di carte bollate”, in “Eventi”, periodic pordenonês di culture, di storie, di politiche e di atualitât (2, Setembar, 2002)]


Verso la fine del Settecento l’area compresa tra i comuni di San Foca, San Quirino, Cordenons e Rorai veniva descritta nel seguente modo: «Il distretto respettivo dei quattro villaggi è di un fondo sassoso quasi per intiero; li pradi sono in gran quantità ed erano in buona parte comunali poi venduti dal Principe (ovvero da Venezia, ndr.); la terra arativa dà un prodotto assai scarso; il vino è scarsissimo; li fieni e li pascoli formano una parte assai considerabile alla sussistenza di quei popoli» (Giovanni Andrea Pellegrini, “Promemoria”, in Giuseppe di Ragogna, “L’origine di Cordenons”, Pordenone, 1963, p. 115).
Nel 1656 i 4 centri avevano ben 7mila 738 campi comunali, pari a piu di 4 mila ettari; dopo un secolo ben 4 mila 12 campi erano stati venduti e quasi 3 mila distrutti dalle rovinose «montane del Cellina». Le comunità dovettero dunque combattere, tra XVII e XVIII secolo, innanzitutto due nemici: il corso torrentizio del Cellina, cui da secoli cercavano di opporre le loro deboli difese, puntualmente travolte dalla furia delle acque, e la nascente economia capitalista che tendeva ad imporre ovunque il modello della proprietà privata e a liquidare ogni forma di possesso comune.
È vero che la massiccia vendita di terre comunali in tutta la Repubblica di Venezia servì a pagare le spese della lunga guerra di Candia contro i Turchi, che impegnò la Serenissima dal 1645 al 1669, causando la morte di ben 30 mila soldati e costi enormi, pari a circa 150 milioni di ducati, ma è anche vero che in tal modo si accelerò un processo già in atto in tutta Europa. Le terre comuni erano una realtà molto complessa ed eterogenea, che sin dall’età romana, ma anche da prima, avevano permesso alle comunità contadine di utilizzare boschi, brughiere e paludi, per il pascolo, la raccolta di fieno, legna e altri prodotti utili alla sopravvivenza, soprattutto in aree poco fertili (per una rassegna aggiornata degli studi si rimanda a: Stefano Barbacetto, “‘Tanto del ricco quanto del povero’. Proprietà collettive ed usi civici in Carnia tra Antico Regime ed età contemporanea”, Pasian di Prato, 2000).
Nel Friuli medievale occupavano gran parte del territorio, estendendosi per circa 140 mila ettari (Paolo Gaspari, “Storia popolare della società contadina in Friuli. Agricoltura e società rurale dal X al XX secolo”, Udine, 1976, p. 106). Esse potevano essere godute da singole comunità o anche da più villaggi ed erano soggette al controllo dell’assemblea dei capifamiglia, la “vicìnia”, che assegnava i lotti a rotazione e vigilava per evitare usurpazioni. La Repubblica veneta si era appropriata delle terre collettive e le aveva ricondotte alla categoria di beni comunali, “bona communalia”, nel 1475, ordinandone poi un censimento sistematico agli inizi del XVII secolo. A tale scopo era stata istituita nel 1602 una magistratura, quella dei “Provveditori sopra la revisione dei beni comunali in terra ferma”, la quale nel giro di alcuni anni creò un vero e proprio catasto (sull’argomento vedi: Alessandro Guaitoli, “Beni comunali e istituti di compascuo nel Friuli agli inizi del secolo XVII”, in “Società e Cultura del Cinquecento nel Friuli Occidentale”, a cura di Andrea Del Col, Pordenone, 1984, pp. 33-52). Protagonisti della ricognizione furono dei periti pubblici che andarono nelle varie comunità a «localizzare le terre collettive, confinarle ed infine eseguire gli estimi e i disegni di posizione, cioè i rilievi topografici delle terre denunciate». Così, ad esempio, fecero Marco Antonio Marcello e Bernardin Bellagno nel luglio 1606, a Polcenigo, riconsegnando poi, a nome della Serenissima, i beni censiti alla comunità: «Abbiamo veduti li Comuni di Polcenigo con la Villa Coltura, Dardago, Budoia, Santa Lucia e San Zuanne e trovato posseder esso Comune li sottoscritti campi dentro li sottoscritti confini che sono terminati all’intorno con molti termini di pietra viva senza il San Marco, di che restano del tutto separati dalli termini di particolari confinanti, quali consegnamo a voi uomini del predetto Comun poiché li abbiate a goder unitamente in comun a pascolo, facendo ubertoso il paese ed allevando degli animali, sicché tutti voi abbiate a sentir con la munificenza di Sua Serenità il beneficio insieme di detti comunali» (Archivio privato, “Beni del Contado di Polcenigo”, c. 53r).
Gli abitanti di Polcenigo e delle altre ville, ogni anno, dalla festa di San Giorgio a quella di San Michele, potevano «bandir per far fieno la terza parte del detto pascolo e far e rinovar pur di anno in anno le prese e sopra di quelle gettar ogni anno la sorte e non altrimenti perché alcuno non possi appropriarsi alcuna minima parte di detti Comunali non potendo nel mezzo di essi esser fatto alcun fosso o altro segno di divisione» (Archivio privato, “Beni del Contado di Polcenigo”, c. 53v). Come si può notare anche lo Stato veneto intendeva salvaguardare il più possibile tali beni da appropriazioni indebite e a tal fine venivano poste altre precise condizioni per 1’usufrutto: «che in quella parte che si ritrovasse a bosco siano conservati per servicio della Serenissima Signoria quei legni che possono esser buoni per la casa dell’Arsenal, ed il resto in alcun tempo mai non possa da voi esser affittato, livellato, permutato o in qualsivoglia modo alienato in alcuna minima quantità per qualsivoglia occasione o sotto qualsivoglia pretesto ad alcuna persona così del vostro Comun come fuori del vostro Comun, medesimamente non possi alcuna minima parte di detti beni Comunali esser arata, piantata né coltivata né sopra quelli esser lasciata far alcuna escavacione né alcuna fornase di calcina da qualsivoglia persona così del vostro Comun come fuori» (Archivio privato, “Beni del Contado di Polcenigo”, c. 53r, 53v). Nonostante ciò, come abbiamo visto, nei secoli XVII e XVIII si procedette a massicce alienazioni, da cui tuttavia furono escluse le zone montane, rendendo così possibile il perdurare del possesso collettivo in tali aree fino ai nostri giorni. Nemmeno le norme napoleoniche, austro-ungariche e sabaude riuscirono infatti a eliminare del tutto la proprietà collettiva, tuttora presente nella legislazione italiana.
Un esempio significativo di ciò è costituito dal Piancavallo, area ancor oggi soggetta ad usi civici, e perlomeno dal XIV secolo proprietà collettiva della comunità di Aviano (sull’argomento: Alma Bianchetti, “Vicende storiche del Piancavallo con particolare riguardo all’evoluzione dei beni comunali”, in “Piancavallo analisi del territorio”, Pordenone, 1980). Naturalmente spesso scoppiavano delle liti tra le varie comunità per l’uso di tali terre. Celebre, ad esempio, quella tra Aviano e Fontanafredda, riguardante la prateria Forcate, iniziata nel XIV secolo e conclusasi, dopo più di 600 anni, nel 1959 (i documenti riguardanti la controversia sono stati raccolti da Nilo Pes, “Questioni fra”, Fontanafredda, 1983). Oppure quella che, sempre sul Monte Cavallo, oppose la comunità di Aviano e i conti di Polcenigo, i quali vantavano antichi diritti su quelle montagne e che si concluse nel 1627 a favore degli avianesi.
Ma si entra qui nella delicata e complicata questione dei confini, che da sempre appassiona gli uomini ed ha avuto nel tempo, com’è noto, non solo un significato materiale ed economico ma anche un valore più profondo, come testimonia questa bella pagina settecentesca, in cui il percorso delle rogazioni diventa prova del vero limite tra le comunità di Aviano e Polcenigo: «La verità fu ed è che nelli tre giorni nelli quali annualmente si fanno le processioni campestri delle rogazioni, seguendo l’antichissima immemorabile consuetudine, il pievano del Castello d’Aviano, soggetto alla sede di Aquileia, nel primo giorno leva la processione nella chiesa di detto Castello e si porta alla chiesa della pieve; et fanno la processione per le campagne inferiori, arrivando sotto il Castello di là del cason di quelli di Chiara, sino alla Campagna di Vigonovo, poi alla strada detta Calle di Sacile, pur diocese di Aquileia; et all’imboccatura di detta strada si canta un evangelio, un poco più avanti si canta il secondo et arrivati al quadrivio si canta il terzo et ultimo evangelio; e dal quadrivio si torna alla chiesa del Castello e termina la processione» (Archivio privato, “Processo dei Comuni del Contado di Polcenigo contro la Comunità d’Aviano”, c. 22v; sul tema dei confini vedi anche Gian Paolo Gri, “(S)confini”, Udine, 2000).
A conclusione della nostra breve e inevitabilmente lacunosa escursione, vale la pena ricordare che anche la “Comina”, di cui tratta questo numero di “Eventi”, ha fatto parte un tempo delle terre collettive, diventando poi un bene demaniale, ovvero di proprietà dello Stato. Sarebbe il caso di aprire una discussione sulla funzione di un’area che testimonia, a pochi chilometri dal capoluogo provinciale, non solo un lungo passato ma anche «un altro modo di possedere» (l’espressione è di Paolo Grossi, “‘Un altro rnodo di possedere’. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria”, Milano, 1977), forse utile ancora oggi.