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"La Vicìnia"
Jugn dal 2017
 
Lo storico cadorino Giandomenico Zanderigo Rosolo

«La sezione d’un abete rosso, all’apparenza modesto, mostra la sua età: 340 anni – scrive l’autore dell’articolo –! Nato e cresciuto nei boschi di Lorenzago, nei suoi primi cent’anni ha conosciuto il dominio della Serenissima Repubblica di Venezia. Nei sottili anelli d’accrescimento ha registrato poi le stagioni di Napoleone, del Lombardo Veneto, del Regno d’Italia, della Repubblica Italiana. Non è soltanto un pezzo di legno da vendere, o lasciar marcire, o da bruciare, o da lavorare, o da studiare: è un pezzo della nostra vita!». Renzo Gerardini di Lorenzago ha sezionato l’abete tricentenario in località Santìgo
L’incipiente “Era dei beni comuni” può trovare nella rivitalizzazione dei Domini collettivi un sicuro fondamento
PER LE REGOLE “DORMIENTI”
Giandomenico Zanderigo Rosolo propone un’interessante riflessione sul rilancio dell’antica istituzione regoliera in Cadore

[Giandomenico Zanderigo Rosolo]
«Le Regole, ancoraggio solido al passato e sicuro fondamento per “l’incipiente era dei beni comuni”»: il sommario utilizzato dalla rivista “Dolomiti” per l’articolo «Perché mai “Regole dormienti”? Il treno passerà ancora?» bene riassume lo spirito e gli intendimenti del nuovo, importante contributo offerto da Giandomenico Zanderigo Rosolo, prolifico studioso della storia e dell’economia del Cadore.
Il contributo, uscito nel numero 1 di “Dolomiti”, nel febbraio scorso, viene qui riprodotto con il consenso dell’autore e con il titolo originario.


Ceterum censeo …

Non era affetto da sindromi neurodegenerative – per quanto consta – l’anziano Catone il Censore, quando andava continuamente ripetendo la sua opinione su Cartagine, 22 secoli fa. Era un chiodo fisso, la conclusione opportuna o non opportuna di ogni suo discorso; ma la sua insistenza portò Roma alla vittoria. Chi ha conosciuto Orazio De Zolt, da Campolongo, esperto di boschi ed appassionato amministratore di Regola e di Comune (1), ricorda che l’argomento fisso di conversazione negli ultimi suoi anni erano le Regole; sempre e soltanto le Regole. Anch’io ritorno sul tema Regole, forse perché sto invecchiando. Ne parlo tuttavia poco volentieri. Da 42 anni infatti, insieme ad altri, sto giocando una partita piuttosto dura, con pochi goal e molte ammaccature e con il rammarico di non essere riuscito a realizzare quello che invece, bene o male, al buon De Zolt fu possibile costruire per la sua comunità. È vero tuttavia che, ai tempi di De Zolt, le Regole erano assai diverse da oggi.
Nel trentennio tra il 1945 ed il 1975 le Regole hanno realizzato cose importanti: la battaglia per il primo riconoscimento (Decreto legislativo del 3 maggio 1948), la transazione Regole-Comune di Cortina (1957), la nuova disciplina privatistica (Legge statale 3 dicembre 1971, Leggi regionali del 3 maggio 1975), oltre a bonifiche ed incrementi del patrimonio, valida assistenza alle famiglie regoliere nonché strade, acquedotti, fognature ed altre rilevanti opere pubbliche in ogni villaggio. Il quarantennio successivo, se si eccettuano l’istituzione del Parco naturale di Ampezzo (1990) ed una riforma della normativa (Legge statale 31 gennaio 1994, Legge regionale 19 agosto 1996), non ha visto risultati altrettanto importanti. Anzi, dopo 70 anni dalla loro rinascita, molte Regole appaiono mancanti di iniziativa, impoverite dal calo demografico, logorate dai contrasti interni. In generale, la scarsa partecipazione alle assemblee è la dimostrazione che i giovani ed i meno giovani sono sempre più lontani e disaffezionati dal mondo regoliero, che non è più una istituzione davvero rappresentativa di interessi comuni.
Tutto ciò non avviene soltanto perché nell’ultimo quarantennio sono state quasi del tutto abbandonate le attività tradizionali, sono cambiati gli stili di vita, il crollo del prezzo del legname ha dimagrito i bilanci. Non dipende neppure dalla mancanza di strumenti di conoscenza ed operativi: mai, come oggi, le Regole hanno avuto tante possibilità di conoscersi, di collaborare ed organizzarsi per sfruttare al meglio le loro risorse e per essere, insieme, una vera forza.
Ci sono ancora persone volonterose che si interessano al proprio paese, né mancano gli esperti, anche ad alto livello, di silvicoltura, di ambiente naturale, di diritto e di altre materie, i quali, anche su questa rivista e da differenti angolature, hanno offerto importanti contributi: senza far torto ad altri, menzionerò soltanto il regoliere comeliano e giurista Gian Candido De Martin Topranin (2). Diversamente da quarant’anni fa, esistono strumenti di comunicazione numerosi, aggiornati e facilmente accessibili riguardo alle tematiche montane in generale (ad es. www.dislivelli.eu) e non mancano istituti che si occupano specificamente di Regole e di enti affini, attraverso i quali è possibile coltivare relazioni ed attingere esperienze: penso, ad esempio, al Centro studi per le proprietà collettive dell’Università di Trento (www.usicivici.unitn.it), all’Associazione delle proprietà collettive del Friuli e di Trieste (www.friul.net/vicinia), all’ Alleanza patriziale ticinese (www.alleanzapatriziale.ch). Ciò che sembra venuto meno è l’entusiasmo e la fiducia, senza i quali nessun risultato è possibile.

Un auspicato risveglio

Ho avuto la fortuna di conoscere, tra gli altri protagonisti della “stagione d’oro” delle Regole, il forestale Giovanni Doriguzzi Bozzo (1902-1987), il giurista Guido Cervati (1907-1987) e gli ancora oggi attivi avvocati Cesare Trebeschi e Ivone Cacciavillani. Pur con analisi e prospettive talvolta discordanti, tutti costoro sono stati profondi conoscitori ed entusiasti sostenitori della proprietà regoliera. Hanno voluto bene alla Montagna ed hanno pensato che le Regole possano essere uno strumento importante per arrestarne il declino. Trebeschi ha espresso la sua fiducia nel futuro di queste nostre antiche istituzioni con due eleganti citazioni latine: i diritti delle Regole “nec per reges nec per leges tolli possunt” e “Multa renascentur quae iam cecidere ...” (3). Cacciavillani, in modo più spiccio, da anni va ripetendo ad altri ed a me: “Bisogna ricostituire le Regole dormienti!”
Ci sono due tipi di Regole “dormienti”: quelle che sono state ibernate ai tempi di Napoleone e, quando hanno tentato di risvegliarsi dopo il 1948, sono state variamente sedate dai Comuni con tanti buoni argomenti, che poi sono un argomento solo: ai Comuni ha fatto comodo disporre del patrimonio agro-silvo-pastorale collettivo per finanziare i propri bilanci.
Ci sono poi le Regole che, pur risvegliate dal lungo letargo, sono oggi incerte e disorientate e, invece di darsi da fare per affrontare la nuova stagione, rimangono come rannicchiate nella tana, che rischia di diventare la loro tomba. In entrambi i casi occorre dunque vincere un pernicioso immobilismo.
La prima ragione per svegliarsi è quella che i “padri ri-fondatori” negli anni Quaranta denominavano “ragione morale”. È indubbio che i diritti originari dei singoli e delle comunità sui beni collettivi sono stati nel corso dei secoli gradualmente erosi, compressi, ostacolati, espropriati, fino all’estinzione. Legalmente od illegalmente i soggetti privati e pubblici più potenti se ne sono in gran parte impossessati. È giusto dunque che venga ristabilito e restituito, per quanto ancora è possibile, ciò che è stato tolto.
Connessa a questa, c’è una ragione di correttezza amministrativa, anche se oggi l’ordine e la chiarezza non sono di moda nelle amministrazioni pubbliche. La gestione dei beni di proprietà collettiva da parte del Comune o di altri che non ne sono titolari rimane sempre una forma inadeguata, dalla quale non possono che derivare inconvenienti. Frequentemente i beni regolieri o di uso civico sono stati oggetto, per ignoranza o per dolo, di alienazioni od altre abusive trasformazioni. Poiché è certo che i diritti collettivi godono della imprescrittibilità e che gli atti di disposizione in violazione dei vincoli sono radicalmente nulli, l’incauto acquirente, contraente od occupante rischia, anche dopo un secolo, di ritrovarsi con un pugno di mosche (4). Si potrà ben sperare in sempre generose sanatorie degli abusi, o cavillare sulla annullabilità dei contratti stipulati dal Comune o da chi altro non ne aveva titolo e cioè quale falsus procurator, ma tutte queste situazioni determinano incertezze, oneri, contrasti che danneggiano le comunità e frenano le iniziative economiche. È opportuno dunque fare chiarezza riguardo alla titolarità dei diritti ed alle modalità che consentono la modifica delle destinazioni d’uso di questi beni.
Ci sono poi altre motivazioni, più o meno rilevanti. I beni comuni erano fondamentali per l’economia dei tempi passati. Il progresso dell’ultimo secolo ha ritenuto di poterli trascurare ed abbandonare, ma per l’economia di oggi e del futuro essi hanno riacquistato, in forme diverse, importanza. È una riappropriazione della terra, del legame rispettoso e forte col proprio ambiente, una riscoperta che oggi appassiona soprattutto i giovani in molti luoghi in Italia e nel mondo. Questa riappropriazione vale per tutte le proprietà collettive, anche quelle della pianura, ma dovrebbe valere particolarmente per le Regole della Montagna.

Per l’ambiente e per l’economia

La società montana negli ultimi 50 anni si è notevolmente impoverita di persone e di risorse. Non si tratta di quella parte montana che ha avuto le stesse opportunità della pianura, ma della Montagna periferica e “verace”, dove il vivere è pesantemente condizionato dalle comunicazioni e dagli altri disagi conseguenti alla conformazione fisica del territorio. Se si vuole impedirne il completo abbandono e degrado, è necessario sfruttare al meglio tutte le possibilità. Le Regole non sono né l’unico né il più importante rimedio, ma sono una delle istituzioni con il concorso delle quali si deve tentare di conservare o ricostituire innanzitutto un tessuto sociale. Se questo tessuto sociale manca od è logoro o sdrucito, anche i finanziamenti più cospicui e le iniziative economiche che possono apparire più redditizie non portano benessere alla Montagna e sono destinati, alla lunga, all’insuccesso.
Certamente né l’agricoltura né la silvicoltura offrono oggi prospettive allettanti ed è assai difficile stabilire quali siano le attività economiche che potrebbero avere successo nella nostra Montagna. Ma come ciò che attrae i turisti a Venezia è l’arte, così la ricchezza turistica della Montagna è la natura e gran parte dell’ambiente naturale è di proprietà delle Regole. Le scelte turistiche dunque interessano oggi alle Regole non meno di quanto, un tempo, interessavano le malghe e la silvicoltura. I problemi del vivere nella splendida Venezia assalita dalle masse di turisti ma svuotata dei suoi abitanti nel centro e nelle ormai desolate isole della laguna sono, in fondo, assai simili a quelli del vivere nella nostra Montagna: per queste delicate realtà molti tuttavia non pensano ad altro che a progettare un futuro da Disneyland ed a sbandierare dispendiosi ed insensati “progetti di sviluppo” che sono come quelle operazioni clinicamente assai ben riuscite, nelle quali il paziente soccombe.
Il patrimonio delle Regole, costituito in gran parte da boschi, prati, pascoli e rocce, ha ancora un rilevante valore, che è ambientale e poi anche economico (5). È questo il motivo per il quale la citata Legge statale del 1994 e quella regionale del 1996 riconoscono le Regole come “soggetti concorrenti alla tutela ambientale e allo sviluppo socio economico del territorio montano”. La dichiarazione di principio deve tuttavia essere tradotta nei fatti, e qui sorgono i problemi. Il “coinvolgimento” delle Regole previsto dalla legge statale del 1994 in materia urbanistica ed in altre scelte riguardanti il territorio è stato tradotto dalla Regione del Veneto (art. 14 della L. R. del 1996) sostanzialmente in un parere preventivo obbligatorio, in difformità dal quale gli enti pubblici territoriali devono motivare le loro decisioni. Se il procedimento è osservato correttamente, non è poca cosa.
Una risorsa che non appartiene alle Regole ma scorre attraverso i loro terreni è l’acqua, oggetto di sfruttamento da parte di terzi. È una risorsa che interessa non poco la tutela ambientale e l’economia del territorio. Al riguardo, nei fatti, la Giunta Regionale nel 2011 ed il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche nel 2013 hanno assunto un orientamento un po’ diverso dal proclamato favore, stabilendo che i beni delle Regole del Cadore erano espropriabili alla pari di altri terreni privati, per l’interesse pubblico riconosciuto a chiunque costruisca impianti idroelettrici o da altre fonti rinnovabili. L’impegno delle Regole di San Vito, sostenute dalle Regole e Comuni di Ampezzo, San Vito e Borca, ha ottenuto tuttavia che la Corte di Cassazione facesse chiarezza sulle procedure e confermasse che gli espropri e l’imposizione delle servitù sui beni delle Regole non possono avvenire allo stesso modo di un qualsiasi terreno privato, ma previa una valutazione comparativa tra l’interesse pubblico della nuova opera e l’interesse pubblico, già riconosciuto, di mantenere l’originaria destinazione dei terreni (6). Anche in questo caso, se la valutazione comparativa tra i due interessi è effettuata correttamente, per i beni regolieri non è cosa da poco.
Innanzitutto dunque le Regole devono prendersi cura in modo esemplare dei loro terreni, difenderli dai danneggiamenti e dalle arbitrarie occupazioni e ricavarne nell’interesse comune tutto quanto essi possono dare. Devono, quando occorre e nei riguardi di chiunque, far valere quelle condizioni di favore che la Legge dello Stato e la giurisprudenza riconosce a loro. Devono impiegarne i proventi per migliorare i terreni stessi e per opere utili. Hanno la possibilità di farlo in autonomia, cioè senza i pesi, le lentezze e gli sprechi dell’amministrazione pubblica ma soprattutto, disponendo di risorse proprie, senza la dipendenza ed i condizionamenti che un sistema perverso di finanziamenti pubblici va estendendo ad ogni iniziativa economica od anche culturale.
Uno scatto di orgoglio dovrebbe animare i regolieri e tutti i montanari nel mettere in chiaro, ad esempio, che i funghi sono proprietà del proprietario del suolo e non di chi ha ottenuto una autorizzazione dalla Regione o dall’Unione Montana. Un barlume di intelligenza dovrebbe essere sufficiente per capire che, con i cambiamenti climatici ed economici in atto, non è un gran investimento ma un’insensatezza l’abbattere alberi secolari per realizzare nuove piste da sci ed innevarle artificialmente.

L’opinione di un giurista

Tra i cultori e difensori delle Regole c’è Paolo Grossi, attuale Presidente della Corte Costituzionale. Questa la sua risposta per coloro che provocatoriamente gli chiedessero “se valesse veramente la pena di conservare queste reliquie”: “Ne vale la pena, perché reliquie non sono, ma assetti ordinativi di uomini di oggi per la società di oggi”.
Da giurista, Paolo Grossi apprezza come colonne portanti delle proprietà collettive il “reicentrismo” e il “comunitarismo”: “la cosa, la cosa produttiva, la terra innanzi tutto; ma non è la cosa dei moderni degna solo di essere calpestata e sfruttata dal suo proprietario. Qui la cosa è realtà vivente non meno dei soggetti che la coltivano; è una realtà né passiva né amorfa, ma recante nelle sue strutture regole primordiali che l’uomo è chiamato a leggere, osservare, rispettare (...). La res frugifera merita rispetto, perché si tratta del complesso strutturale che garantisce la sopravvivenza della comunità (...); non è pensabile una terra senza una comunità intenta a lavorarla e a gestirla. I nostri assetti organizzativi non si esauriscono, infatti, in un complesso di beni (...). La comunità è un valore sopravanzante il singolo membro, valore che, se osservato e conservato, garantisce la catena ininterrotta delle generazioni e si pone quale unica solida garanzia per la loro perfetta continuità (...). Tutto questo non è un patrimonio storico da dilapidare e, tanto meno, da liquidare, ma piuttosto da preservare come ricchezza della intiera società italiana” (7).

... nonché di qualche economista, sociologo, alpinista

Innescata quasi 50 anni fa da una critica del biologo-ecologo statunitense Garret Hardin (8), la discussione sui “beni comuni” si è ravvivata nella attuale crisi del sistema economico. Essa riguarda i problemi attuali di gestione di grandi beni comuni come l’atmosfera, l’acqua e le risorse ittiche oceaniche, nonché di semicommons e new commons come internet o le risorse genetiche vegetali; ma ha dedicato attenzione anche alle forme antiche di gestione collettiva. La statunitense Elinor Ostrom (1933-2012), premio Nobel per l’economia nel 2009, ha rilevato che alcune società umane sono riuscite a gestire le risorse naturali in modo “sostenibile”, dandosi delle norme che hanno consentito di assicurare per migliaia di anni i “beni comuni” (9). Tra gli elementi che garantiscono il successo della gestione ci sono:
la precisa definizione del bene comune (non tutto dev’essere necessariamente comune);
gruppo di utenti stabile, ben definito e che esclude i soggetti esterni che non vi hanno diritto (è destabilizzante l’ingresso di soggetti esterni interessati soltanto a trarre profitto);
valori condivisi, forme di appropriazione ed uso conformi al contesto locale;
autonomia e partecipazione al processo decisionale da parte del maggior numero di membri, evitando l’intervento esterno, anche dello Stato, che alteri i valori condivisi, pur con l’intento di preservare il bene;
capacità degli utenti di modificare le regole quando è necessario;
forme semplici ed efficaci di controllo, di sanzionamento dei trasgressori e di risoluzione dei conflitti.
Insomma c’è quello che in buona parte era già praticato negli antichi istituti delle proprietà collettive e che vale anche per il loro futuro, come è stato opportunamente evidenziato, richiamando la Ostrom, da Elisa Tomasella ed in altri studi riguardanti le nostre Regole (10).
L’economista Luigino Bruni prospetta: “Stiamo entrando decisamente nell’era dei beni comuni, una fase della storia dell’umanità che da un certo punto di vista è inedita (per le dimensioni del problema certamente) ma dall’altra rappresenta un ritorno all’antichità, quando le risorse economiche delle comunità di raccoglitori e cacciatori erano con ogni probabilità gestite comunitariamente dai gruppi. Oggi, e ancor più domani, i beni economici e sociali decisivi per la qualità della vita sulla Terra e forse per la sua stessa sopravvivenza sono e saranno beni che utilizziamo contemporaneamente in tanti, tutti in alcuni casi (ad esempio, lo strato di ozono), e che sottostanno a leggi ben diverse da quelle che regolano la produzione e il consumo dei beni privati, quelli studiati dalla scienza economica in questi due secoli. In questa nuova-antica era, la regola saranno i beni comuni, l’ eccezione i beni privati” (11).
Prati, pascoli e boschi comuni sono dunque tutt’altro che anticaglie. Ma, come ammonisce un alpinista attento e vivace, Enrico Camanni, “chi si illude di salvare e rilanciare la montagna con una pur nobile difesa della sua memoria, della sua autonomia, delle sue tradizioni, ignora che il nostro mondo – almeno il mondo europeo – vive ormai di un’unica cultura, quella metropolitana, e che ogni alternativa può nascere solo all’interno di essa e non a chimerica difesa di un passato autarchico che non esiste più (o non è mai esistito affatto). In altre parole l’identità alpina non può porsi come un “locale” impermeabile al “globale”, ma può rivendicare forza e dignità solo se accetta di misurarsi con il “mondo di fuori”, recependone le sollecitazioni utili e facendone emergere i limiti e le contraddizioni”. Sulla principale risorsa delle Alpi di oggi, il turismo, Camanni ha ben chiaro: “il turismo ‘mangia’ se stesso, nel senso che consuma e distrugge ciò che cerca (...). Il turismo non è un fenomeno diverso dalle altre attività commerciali, e come tale si basa sul consumo: di beni immateriali come la bellezza (dell’ambiente), la spettacolarità (delle montagne), il silenzio, la ‘genuinità’, la ‘tradizione’; di attrattive folcloriche che, adeguatamente pilotate, rispondano alle aspettative dei cittadini romantici e orfani del passato. In tal modo ogni località, ogni valle, ogni comprensorio alpino si è visto costretto a ridefinire se stesso e a ‘reinventarsi’ a uso e consumo della città, con processi di rappresentazione che spesso non coincidono con l’anima del luogo, ma sono semplicemente il frutto dell’adattamento a modelli governati dalle regole del mercato turistico. Una falsificazione, insomma”. Perciò Camanni prospetta che “la montagna di domani sarà il risultato di un lungo e delicato processo di relazione e scambio con il modello urbano, e potrà candidarsi come risposta convincente e durevole proprio se saprà proporsi in alternativa alle patologie di un consumismo illimitato e senza futuro” (12).
In una attenta analisi della nostra situazione locale, il sociologo Diego Cason ha rilevato i principali punti critici: l’abbandono delle attività agricole sopra gli 800 metri di quota e la trasformazione delle tipologie d’impresa e delle pratiche colturali; la redistribuzione degli attivi verso le attività manifatturiere; la crescente mobilità territoriale, l’abbandono delle residenze d’alta quota e l’aumento delle abitazioni non occupate; l’invecchiamento e grave cambiamento della struttura demografica delle comunità; una squilibrata evoluzione del turismo. Ne consegue, tra l’altro: “la riduzione della stima di sé e della fiducia nelle proprie competenze e capacità”, “un tentativo di ritrovare in immagini stereotipate e inattuali un rifugio dalle aperture indotte dalla globalizzazione e dalla conseguente concorrenza internazionale”, “una grave difficoltà nel ricambio delle imprese attive” ed “un processo di chiusura che contrasta con le esigenze di sostituzione degli attivi mancanti”. Il sociologo pone una lunga e doverosa serie di domande sugli interventi che sono opportuni o non opportuni nell’utilizzo del territorio e avverte che “in questa situazione è facile per una comunità pensare che un qualsiasi investimento, una qualsiasi opportunità di lavoro e di produzione sia una cosa buona, a priori. Invece è proprio in queste situazioni di grave disagio che è necessario avere la vista lunga, che è mancata nei periodi di sviluppo rapido intenso e radicale. Si tratta di valutare con attenzione che una qualsiasi attività d’impresa ha necessità di fattori di produzione in equilibrio e che se il fattore più debole è il lavoro è inutile accrescere il capitale o le risorse naturali. Il fattore critico insufficiente sarà sempre un ostacolo alla crescita. Per capirci, se manca lievito nella pasta della pizza non serve a nulla aggiungere farina ed acqua perché l’assenza del lievito diventerà ancora più critica ed ancora più penalizzante.” Conclude perciò: “E’ necessario, in tempi brevi, ripristinare l’equilibrio, altrimenti un vasto territorio alpino, pieno di opportunità economiche, di formidabile qualità ambientale, con una storia millenaria, si svuoterà dei suoi abitanti e perderà ogni attrattiva, diventando una merce indistinta sul mercato del turismo e del consumo, per il quale ogni aumento del valore della merce produce un decadimento di senso nelle relazioni che lo rendono utile e possibile” (13).

La procedura di ricostituzione

Le riflessioni di autorevoli studiosi e quelle delle persone più attente che vivono nella realtà locale sembrano tutte convergere: è necessario conservare il meglio del passato ed è altrettanto necessario saper innovare. E’ questo il risveglio che occorre anche alle Regole.
Non chiusure dettate sostanzialmente dalla paura e da complessi d’inferiorità, non restauri nostalgici o rivendicazioni localistiche, ma valutazioni serene e scelte ben ponderate. Il patrimonio regoliero è dunque oggi ben utilizzato? I proventi sono ben impiegati? E’ un buon impiego destinare i proventi, oggi assai modesti, dei tagli dei boschi collettivi, al finanziamento delle spese correnti dei bilanci comunali? Considerando che si sta lentamente avviando una riorganizzazione ed accorpamento dei Comuni, quali scompensi potranno esserci là dove i beni regolieri sono in mano ai Comuni e quali funzioni organizzative e rappresentative potrebbero invece essere riassunte dalle Regole, specialmente dei paesi più piccoli e periferici? Sono pienamente utilizzate le agevolazioni e le sovvenzioni che la normativa attuale prevede per le Regole, che sono imprenditori agricoli a titolo principale e sono equiparate, in qualche caso, alle cooperative ed agli enti pubblici?
È inevitabile e fisiologico che le attività, più dell’immobilismo, comportino resistenze e contrasti. Ma ci devono essere anche gli strumenti per risolvere queste situazioni ed è inammissibile invece che si mantengano situazioni patologiche che avvantaggiano interessi meschini o grandi, in danno dell’interesse generale. E’ inammissibile che chi ha la possibilità di consigliare e prevenire le controversie o il dovere di dirimerle, trovi più comodo non esprimersi; che si trovi facilmente il modo di sfuggire alle responsabilità; che per ottenere giustizia si debbano affrontare procedimenti che durano decenni.
Le Regole esistenti devono dunque sapersi aggiornare e devono poter godere appieno del favore della Legge. Per quelle “dormienti”, gli artt. 1 e 3 della citata Legge regionale dichiarano che la Regione “ne favorisce la ricostituzione”. In effetti la normativa statale e regionale offre oggi la possibilità di ricostituirsi e di fruire dell’autonomia non soltanto alle Regole del Cadore, ma anche ad altri istituti della proprietà collettiva. Alle Regole del Cadore già ai tempi della Repubblica di Venezia era stata riconosciuta una particolare autonomia ed un particolare regime dei beni. Le Regole, Vicìnie od altri enti variamente denominati, esistenti nel Bellunese ed in altri luoghi, hanno affinità con le Regole del Cadore ma anche molte diversità negli ordinamenti e nei patrimoni. Queste Regole di altri territori hanno avuto una storia e carattere diverso, di solito più spiccatamente pubblicistico; sono state più propriamente assimilate agli usi civici e su di esse il controllo pubblico è stato più marcato. Oggi anche a questi diversi istituti è data la possibilità di rifiorire nell’autonomia. Nel Veneto la disciplina regoliera è stata così estesa nel 1977 alle Regole di Colle Santa Lucia; nel corso del ventennio dopo la Legge regionale del 1996 è stata estesa a 2 Regole di Zoldo e 6 dell’Alpago ed una al confine tra le province di Vicenza e di Trento; nel 2012 a quelle di Asiago e degli altri 6 Comuni dell’Altipiano vicentino nonché alle Comugne di Grignano Polesine in Comune di Rovigo: quest’ultime sono un relitto di campi dell’estensione di 120 ettari, concessi in enfiteusi dall’abbazia colombaniana di Pomposa agli abitanti “originari”, i quali vi sono ancora assai affezionati e ogni 5 anni provvedono alla ripartizione ed assegnazione tra loro per la coltivazione.
Sono 47 le Regole della Magnifica Comunità di Cadore alle quali il Decreto legislativo del 1948 ha conferito la personalità giuridica, come risulta dall’elenco che, sulla base delle dichiarazioni dei Sindaci, la Magnifica Comunità trasmise a suo tempo alla Prefettura (evasione alla nota 27 settembre 1948, n. 12025). Un terzo di esse, precisamente 15, sono oggi “dormienti”, anche se alcune fra queste hanno a suo tempo provveduto agli adempimenti richiesti, cioè la trasmissione alla Prefettura dello statuto deliberato dall’assemblea, dell’elenco dei regolieri e dell’elenco dei beni del patrimonio antico vincolato. Per queste Regole, che hanno acquisito ope legis la personalità giuridica, non sarebbe neppure necessaria oggi una nuova procedura di riconoscimento, ma semplicemente una riattivazione con il deposito degli atti aggiornati in conformità alla vigente normativa delle persone giuridiche private.
Per tutte le Regole che vogliano ricostituirsi ed ottenere il riconoscimento, la Legge regionale del 1996 prevede una procedura che dev’essere rigorosa e comporta un certo impegno, ma che non è particolarmente difficile, così come non sono particolarmente difficili gli adempimenti ai quali la Regola è tenuta nello svolgimento delle sue attività. A differenza del passato, da oltre un decennio lo Stato e la Regione hanno messo da parte la diffidenza verso le associazioni ed hanno rinunciato ai rigidi controlli ed al sindacato sugli statuti e sugli altri atti delle persone giuridiche private. Beninteso, ciò non significa che gli atti possano essere contrari alle Leggi.
Gli artt. 2-3 della Legge regionale del 1996 prevedono che l’iniziativa della ricostituzione sia assunta liberamente da un gruppo di persone, un “comitato promotore” con un presidente. Costoro provvedono alla redazione dello statuto, dell’elenco dei beni e dell’elenco dei partecipanti ed alla convocazione dell’assemblea per l’approvazione di questi atti e per l’elezione dei primi amministratori. Il deposito degli atti nella segreteria del Comune garantisce che essi siano conoscibili da parte di tutti gli interessati, i quali possono presentare le loro osservazioni, sulle quali l’assemblea controdeduce, per trasmetterli poi alla Giunta Regionale insieme alla richiesta di riconoscimento.
Tutti questi atti sono rilevanti. La redazione dell’elenco definitivo degli aventi diritto è delicata, ma tuttavia l’esperienza ha mostrato che generalmente si riescono a trovare criteri chiari e condivisi che evitano i contenziosi. Un atto più difficile è la redazione dell’elenco dei beni, con l’indicazione della loro consistenza, origine e destinazione. Questi dati generalmente si possono ricavare dagli inventari dei beni immobili del Comune o che sono stati redatti a suo tempo per le Frazioni o per le Regole riconosciute dal Decreto legislativo del 1948; i vecchi registri degli inventari sono generalmente meticolosi, specialmente se i beni sono classificati di uso civico. Dove non sia possibile utilizzare questi inventari, è necessaria una ricerca di documenti storici, di atti trascritti alla Conservatoria dei registri immobiliari, di dati catastali. Neppure questo è tuttavia un ostacolo insormontabile, anche perché può essere sufficiente redigere un elenco degli immobili principali e sarà sempre possibile una successiva integrazione per i beni che presentino situazioni più incerte e complesse e siano oggetto di nuovi accertamenti.
La chiarezza, completezza e coerenza dello statuto è garanzia di un buon funzionamento dell’amministrazione. Occorre dunque elaborare norme organizzative praticabili e che riescano a conciliare la tradizione con le esigenze dei tempi. A questo proposito c’è da rammaricarsi di una sonnolenza od eccessiva lentezza o poca chiarezza delle Regole nell’affrontare la questione femminile, sulla quale da decenni si discute senza essere ancora arrivati a soluzioni soddisfacenti. Se 30 anni fa si poteva ancora temporeggiare od accettare qualche compromesso, oggi la soluzione non può che essere la completa parificazione dei diritti. Invece alcune Regole hanno recentemente deliberato che la qualifica di regoliere sia legata al cognome. Questa soluzione è errata per 2 motivi: primo perché attraverso il vincolo del cognome, che nel nostro sistema si trasmette normalmente in linea paterna, si reintroduce surrettiziamente la discriminazione femminile; secondo perché le Regole sono sorte prima dei cognomi e non sono un ente araldico preposto alla conservazione di genealogie patrilineari bensì alla conservazione delle famiglie e della comunità. In ogni caso, le scelte riguardanti il nome ed il cognome spettano esclusivamente ai genitori e non possono essere un motivo per escludere o discriminare il diritto di partecipazione alla Regola: neppure per il maso chiuso è stabilito che abbiano diritto, ad esempio, soltanto Hans o Grete Thurschenthaler e perdano i diritti quelli che si chiamino Giovanni o Margherita Rossi.
Oltre a questa questione, è necessario che le Regole ne affrontino una più complessa e del tutto nuova, cioè il problema della residenza. In una società nella quale sono diventate facilissime le comunicazioni a lunghe distanze; nella quale i regolieri non sono più esclusivamente agricoltori ed allevatori ed il lavoro stesso, anche quello più legato alla terra, comporta spostamenti e non una rigida stanzialità, non ha più senso stabilire che per appartenere alla Regola occorre risiedere nel ristretto territorio del villaggio o del “regolato”. La Legge non prevede per i regolieri la residenza anagrafica in un Comune ma la “stabile residenza” in un “territorio”. Dev’essere dunque ragionevolmente definita l’estensione di questo territorio. Già nel 1948 si prevedeva che la residenza si potesse intendere “prescindendo dalla circoscrizione amministrativa del Comune”, anche considerando che molte Regole possiedono beni del loro patrimonio antico dislocati fuori dal territorio comunale dove hanno la sede. Se in futuro interverrà l’accorpamento dei Comuni, ne risulterà alterato anche il criterio della residenza “anagrafica”. Occorre dunque stabilire criteri nuovi e chiari del legame col territorio.
Un processo che per il momento sembra difficilmente reversibile è l’abbandono dei villaggi più alti e periferici e l’incremento di quelli di fondovalle. Ne consegue che le Regole dei paesi alti o periferici abbiano un ampio patrimonio fruito da poche decine di famiglie o che addirittura si avviino all’estinzione, mentre nei paesi di fondovalle le famiglie regoliere diventano minoritarie e si va formando una categoria di persone slegate sia dalla loro Regola di origine che da quella del paese dove vivono. Dopo secoli nei quali le Regole “matrici” si sono progressivamente frazionate, occorre ora iniziare un percorso inverso e perciò prevedere forme di più stretta collaborazione ed integrazione tra Regole. Ne hanno offerto l’esempio la Comunanza delle Regole d’Ampezzo e, in tempi più recenti, la Comunanza di quelle alpagote.
Nello statuto è, infine, assai importante la previsione di un efficiente organo di autocontrollo, che eviti gli effetti dirompenti delle controversie. L’esperienza degli ultimi decenni mostra che finora quest’organo non è stato ben congegnato e che occorre venga costituito non all’interno delle singole Regole ma da regolieri od altre persone esperte e terze rispetto a ciascuna Regola.
L’art. 17 della citata Legge regionale prevede, a carico della Regione, un rimborso fino al 70% delle spese sostenute dal “comitato promotore”. È forse questa la differenza maggiore dai “padri fondatori” che 70 anni fa, dignitosamente, raccoglievano in un cappello di feltro le schede di votazione ed il denaro corrisposto da ciascuno per finanziare la causa comune. Per il resto, come è rilevabile scorrendo alcuni vecchi articoli del quotidiano “Il gazzettino” che presento qui accanto, le ragioni addotte a favore delle Regole, così come le critiche, non sono molto cambiate da allora.
Anche se può essere una cosa fastidiosa, repetita iuvant. Dunque mi associo volentieri e risolutamente all’avv. Cacciavillani: Bisogna riformare le Regole “dormienti”! Ceterum censeo: Regulas esse reformandas!


Note

1 - Orazio De Zolt Soch (1905-1988), soprannominato “Il Governatore”, fu a capo dell’ “amministrazione separata” della Frazione-Regola di Campolongo dal 1945 al 1951. Su questa rivista ha pubblicato alcune sue memorie dei Lavori boschivi in Comelico, “Dolomiti”, VIII (1985), n. 3, pp. 29-36.

2 - De Martin si è interessato alle Regole da parecchio tempo ed in numerosi scritti, tra i quali menzionerò soltanto: Profili giuridici degli enti regolieri nel quadro del nuovo assetto degli enti montani, Milano 1973; Il problema del futuro delle Regole, “Dolomiti”, VI (1983), n. 1, pp. 7-10; La riscoperta e la attuale rilevanza delle comunità di villaggio, nonché I regimi regolieri cadorini tra diritto anteriore vivente e ordinamento vigente, in Aa. Vv., Comunità di villaggio e proprietà collettive in Italia e in Europa, Atti del simposio internazionale, Pieve di Cadore 15-16 settembre 1986, a cura di Gian Candido De Martin, Padova 1990, pp. 1-26 e pp. 194-225.

3 - Così nel 1986 nell’intervento Proprietà collettiva tra pubblico e privato, in Aa. Vv., Comunità di villaggio e proprietà collettive in Italia e in Europa, cit., pp. 176-177; lo ripete nella presentazione del saggio di Ivone Cacciavillani, La proprietà collettiva nella montagna veneta sotto la Serenissima, Padova 1988, p. 7, ed anche nell’intervento Favole, Gaggi, Regole, Vicinie. Alla ricerca di un diritto sopravvissuto, anzi vivente: un dato al plurale, in Aa. Vv., Comunioni familiari montane, II, Testi legislativi, sentenze, studi, Atti del seminario di studio ‘Per una proprietà collettiva moderna’, Cortina d’Ampezzo 21 giugno 1991, a cura di Emilio Romagnoli, Cesare Trebeschi, Alberto Germanò, Andrea Trebeschi, Brescia 1992, pp. 187 e 189. Al problema della riattivazione delle Regole di Borca, San Vito, Vigo ed altre “dormienti”, Trebeschi ha dedicato l’articolo Comunioni familiari montane venete: appunti sulla opportunità di generalizzarne o quanto meno di estenderne la disciplina regionale, “Il montanaro d’Italia - Monti e boschi”, XXXII (1981), n. 5, pp. 11-14.

4 - Un esempio è la sentenza depositata il 19 settembre 1986, prot. n. 157, con la quale il Commissario per la liquidazione degli usi civici di Venezia ha dichiarato che una serie di terreni (48 mappali, oltre 2 ettari) in località San Rocco di Auronzo, sui quali nel 1981 erano iniziati i lavori per la costruzione di (seconde) case, costituivano demanio collettivo frazionale; ne ha pertanto disposto la restituzione al Comune di Auronzo “quale ente gestore” dei beni frazionali ed ha dichiarato la nullità assoluta degli atti, stipulati nei decenni precedenti, di alienazione e trasferimento di detti beni. Si tratta di un caso per vari aspetti “estremo”, in quanto riguarda beni che già negli atti catastali di inizio Ottocento risultavano pacificamente privatizzati; la loro originaria natura collettiva è stata desunta dalle “coincidenze” degli allineamenti dei fondi, dei nomi delle località e dei cognomi-casati indicati dai registri di assegnazione dei “colonelli” del secolo XVI con quelli del catasto del 1813. La pronuncia ha richiamato l’interesse dei giuristi perché, sulla base della sostanziale identità tra il regime dei beni di uso civico e quello delle associazioni “chiuse” e di natura privata come sono le Regole cadorine, ha dichiarato la sussistenza della giurisdizione del Commissario per i beni pertinenti a Regole “esistenti solo di nome” ovvero per le quali non sia “stato mai avviato alcun atto di ricostituzione” in seguito al D. Legisl. 3.5.1948, n. 1104. Sono stati ribaditi il principio della presunzione di demanialità (pur “temperato dal canone opposto (...) perché colui che rivendica un bene ha sempre a suo carico l’onere di provare il fondamento del suo diritto, senonché quando la demanialità è intrinseca alla natura di determinati beni, tale distinzione viene a perdere i suoi contorni”) ed il principio di imprescrittibilità (“gli usi civici delle popolazioni sulle terre comuni non si perdono per il non uso, anche prolungato nel tempo”; l’art. 9 della Legge sugli usi civici prevede, a determinate condizioni, la possibilità di legittimare le eventuali occupazioni ma, quando non avvenga detta legittimazione, dispone che le terre debbano essere restituite al Comune, all’associazione agraria od alla Frazione, “a qualunque epoca l’occupazione di esse rimonti”). Tuttavia la sentenza non ha considerato che dall’Età Antica o dal Medioevo in qua molte delle “prese”, “ampi” e “colonelli” originariamente di proprietà collettiva sono stati non abusivamente ma pacificamente occupati e privatizzati in conformità alle leggi allora vigenti; se fosse sufficiente dar prova che in epoca più o meno remota un determinato terreno era di proprietà collettiva ovvero di uso civico, ben più di metà del territorio d’Italia dovrebbe essere reintegrato nella proprietà collettiva. Il testo della sentenza è riportato e commentato da Ivone Cacciavillani, La sentenza Fletzer sulle Regole, Belluno 1989; Cacciavillani vi concorda con la tesi, per me invece poco consistente, del carattere “longobardo” delle Regole; riflette sul presente e sul futuro dell’economia montana (v. oltre), rileva il caso delle Regole auronzane come “esempio del profondo dissidio esistente nella montagna”, tra la gente e l’Autorità anche locale che dovrebbe rappresentarla e che invece è “irretita in un burocraticismo che diventa strumento di eversione di quei valori che pur a parole ognuno vuol difendere e ristabilire. Sotto questo profilo la sentenza è un terribile atto d’accusa del velleitarismo parolaio” (p. 42). Il testo della sentenza è riportato anche in Comunioni familiari montane, II, cit., pp. 627-643. Vedasi anche Alberto Germanò, Comunioni familiari montane e giurisdizione in caso di usurpazioni di terre, commento alla sentenza 18 settembre 1986 del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici di Venezia, “Rivista di diritto agrario”, LXVI (1987), pp. 447-472.

5 - Tra coloro che da tempo hanno evidenziato il nuovo valore dei beni regolieri, ricorderò qui, per contiguità con la premessa, soltanto una nota di trent’anni fa di Cacciavillani, La sentenza Fletzer, cit., pp. 11 e 33: la Montagna negli ultimi decenni ha subìto trasformazioni profonde, in particolare “l’assalto delle grandi masse, dapprima attratte dalla villeggiatura estiva, poi prese dalla febbre dello sci; ha squarciato i boschi per farne piste; ha spianato vallette per farne parcheggi; ha distratto la gente della montagna dal suo ambiente, ammaliandola col miraggio del ‘progresso’, al punto da farle spesso dimenticare le sue tradizioni e il suo stesso ambiente di vita”. (...) “alla montagna restò soltanto la spinta alla ‘cementizzazione’ del territorio, consumato da modelli di sfruttamento decisamente incompatibili con l’uso suo proprio”. Le Regole sono “argine e aiuto prezioso per salvare quel che è rimasto e per ricreare – innestandoli sui moduli antichi – nuovi modelli di vita e di rapporti con l’ambiente naturale”. Occorre “salvare la montagna riscoprendo le forme più antiche dell’abitarvi”. “Nella frenesia della civiltà della velocità, il territorio montano è chiamato a spiegare un ruolo sia direttamente ecologico, per la ricreazione dei fattori di sopravvivenza fisica, che è ‘tecnicamente’ chiamato ad assicurare, sia – e con importanza crescente – di strumento di disintossicazione dalla schizofrenia della vita della ‘città’ (...) sempre meno vivibile a misura d’uomo. Ecco che la titolarità e la gestione collettiva, da parte della gente del posto, dei territori produttivi montani acquista funzione parzialmente nuova, o meglio acquista una dilatazione in chiave sociale generale della funzione antica, di essere il mezzo di sopravvivenza essenziale della gente sulla Montagna”.

6 - La sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, del 6.10.2015, n. 7021, depositata l’11.4.2016, pur respingendo il ricorso delle Regole di San Vito contro la sentenza del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, n. 79, depositata il 19.4.2013, e pur confermando, com’era ragionevole, che il vincolo dei beni regolieri non comporta l’assoluta inespropriabilità e “recede rispetto ad esigenze d’interesse pubblico generale sottese o alla tutela dell’ambiente o (come nel caso in esame) all’uso razionale delle risorse energetiche da fonti rinnovabili”, ha ribadito alcuni importanti princìpi, ai quali la Regione e gli enti pubblici territoriali devono attenersi:
“Il legislatore, nazionale e regionale, ha evidentemente inteso valorizzare le Regole e il loro antico patrimonio agro-silvo-pastorale” (...). “Ciò, però, non comporta alcun vincolo di inespropriabilità dei beni regolieri, né la subordinazione del loro esproprio a forme di autorizzazione o consenso della Regola”.
Analogamente a quanto dispongono le norme che prevedono l’espropriabilità anche dei beni del patrimonio indisponibile dello Stato, degli enti pubblici o soggetti ad uso civico, quando si debba “perseguire un interesse pubblico di rilievo superiore a quello soddisfatto con la precedente destinazione”, nella procedura di espropriazione dei beni regolieri è necessario “procedere ad una valutazione comparativa tra l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera e l’opposto interesse pubblico al mantenimento dell’originaria destinazione dei terreni, quale mezzo di salvaguardia dell’ambiente. E tale attività di ponderazione non può prescindere, ai fini di una piena cognizione, da un coinvolgimento delle comunità regoliere, stante il rilievo costituzionale della loro tutela”.
Nel caso particolare compete alla Regione “di valutare l’esistenza di un interesse pubblico prevalente che imponga l’espropriazione dei beni regolieri e la loro sottrazione alla destinazione originaria, così come la Regione stessa, come detto, può autorizzare un tale mutamento deliberato dalla Regola”.
La modalità del “coinvolgimento” delle Regole “va individuata, secondo un’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata, nel parere (non vincolante), cioè nell’obbligo dell’organo competente di sentire le Regole, non rivelandosi a tal fine sufficiente il loro eventuale intervento in seno al procedimento unico di cui all’art. 12 del d. lgs. n. 387 del 2003”.

A questa pronuncia della Suprema Corte merita d’essere accostata quella resa l’ 11.12.2012 dal Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 1698, depositata il 26.3.2013. Essa riguarda la procedura regionale di cambio di destinazione dei beni di uso civico, che è analoga a quella dei beni regolieri. Una società era ricorsa contro il diniego della Regione Campania di concedere il cambio di destinazione dei terreni sui quali dovevano essere installati alcuni piloni d’un impianto eolico. Detto impianto era stato per altri aspetti autorizzato dalla Regione, dalla Soprintendenza ai beni archeologici nonché dal Comune, il quale riteneva come un atto dovuto il cambio di destinazione. Naturalmente il mancato avvio dell’impianto eolico comportava la richiesta, da parte della società ricorrente, del risarcimento del danno emergente, del lucro cessante e delle altre perdite.

Il Consiglio di Stato, confermando la pronuncia del Tribunale Amministrativo Regionale, ha invece ribadito e stabilito:
“Il legislatore, nel disciplinare la destinazione delle terre sulle quali gravano usi civici (...) ha sancito, in via di principio, l’inalienabilità e l’impossibilità di mutamento di destinazione dei terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente e – solo in via di eccezione – salva la possibilità di richiedere l’autorizzazione (...) a derogare dai predetti limiti”. (...) “La eccezionalità della deroga rispetto all’ordinario regime di intangibilità di tali diritti si impone proprio perché il ‘mutamento di destinazione’, nella realtà delle cose, implica il venir meno della possibilità di usufruire dei frutti dei terreni”.
“Tale deroga all’utilizzazione del terreno, comportando necessariamente limitazioni dei diritti d’uso civico per le collettività cui appartengono, anche oggi ha carattere tipicamente eccezionale e non può né deve risolversi nella perdita dei benefici anche solo di carattere ambientale per la generalità degli abitanti, unicamente a vantaggio di privati”.
(...) “Le terre appartenenti ai diritti civici risultano, di norma, incompatibili con l’attività edificatoria (...) per l’evidente ragione che ‘privatizzano’ a tempo indeterminato un bene, i cui diritti spettano invece ad una collettività, sottraendo spesso definitivamente alla pubblica utilità i benefici provenienti dalla terra, dai boschi e dalle acque. La pur condivisibile finalità dell’incremento delle fonti di energia rinnovabili non può portare il collegio ad accettare la qualificazione come ‘provvisorie’ di strutture di carattere oggettivamente permanente, quali sono quelle che conseguono all’apposizione al suolo di cinque tralicci d’acciaio (la cui altezza minima in genere è di oltre 60 mt.), oltre alle relative opere accessorie (linee di adduzione, cabine, strade di accesso ecc.)”.
(...) “Le collettività – sia nel loro insieme che in testa a ciascuno dei suoi componenti uti singulus – vantano nei confronti dei relativi beni un diritto collettivo di natura reale che si esercita in forma ‘duale’ con il Comune il quale, ente esponenziale dei diritti della collettività, ordinariamente li amministra in suo nome, mentre per iniziative di carattere straordinario è sottoposto alla diretta ed indefettibile vigilanza della Regione”.
“L’autorità regionale, nel suo ruolo di vigilanza sulle richieste di mutamento di destinazione dei terreni di uso civico, deve peraltro far luogo ad una valutazione complessiva diretta a dimostrare in concreto che la nuova diversa destinazione rappresenti davvero un beneficio presente e futuro per la generalità degli abitanti. L’analisi comparativa dovrà dimostrare la maggiore utilità della nuova destinazione delle terre ad uso civico in contrapposizione con gli interessi civici, economici ed ambientali che depongono per il mantenimento dello status quo”.
Il legislatore ha riconosciuto agli usi civici una “ulteriore e rilevante funzione nella società contemporanea, conseguente proprio alla natura di bene collettivo, per cui alle tradizionali funzioni degli usi civici, si è nel frattempo aggiunta una loro fondamentale utilità ai fini della conservazione del bene ‘ambiente’, che ancorché costituzionalmente protetto, è in rapido e progressivo degrado. (...) Il procedimento autorizzatorio degli impianti destinati alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è fondato sulla c.d. autorizzazione unica regionale ma per ciò che riguarda la valutazione dell’impatto paesaggistico, si distingue rispetto a quella ordinaria”.

7 - Paolo Grossi, Gli assetti fondiari collettivi e le loro peculiari fondazioni antropologiche, “Archivio Scialoja-Bolla”, 2012, n. 1, pp. 1-13. Grossi evidenzia anche le difficoltà antiche e recenti per il riconoscimento di questi istituti: una “strada fitta di ostacoli, di ostruzioni, di testimonianze impastate di ignoranza, di miopie, di indisponibilità” (ivi, p. 12). Dello stesso tenore era stata, un trentennio fa, la dichiarazione del Commissario per gli usi civici Gino Fletzer in un’intervista rilasciata a Fiorello Zangrando: “Si ritiene che la fase che stiamo attraversando sia quella che porterà inevitabilmente alla scomparsa di questo fenomeno economico-giuridico. Niente di meno vero. Gli usi civici rimangono sempre a concretare una realtà che è scritta nella storia del nostro Paese e non è soltanto reliquia del passato, ma condizione di sopravvivenza di un patrimonio indisponibile a servizio degli uomini, a tutela dei loro bisogni, a protezione dei loro focolari, a salvaguardia pure dell’ambiente in cui viviamo” (prefazione a Cacciavillani, La sentenza Fletzer, cit., p. 6).

8 - Garret Hardin, The Tragedy of the Commons (La tragedia dei beni comuni), sulla rivista “Science” del dicembre 1968, pp. 1243-1248.

9 - Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge 1990; traduzione italiana: Governare i beni collettivi, Venezia, 2006. Tra le proprietà collettive oggetto di studio della Ostrom ci sono quelle dei pascoli della Svizzera.

10 - La Tomasella ha osservato, in particolare: “Nella proprietà collettiva, finalità produttive e ambientali si coniugano perfettamente. La sopravvivenza di tale istituto dimostra come questo modello proprietario, garantendo l’efficiente gestione dei pascoli e delle foreste montane meglio del dominio individuale, abbia preservato il territorio dall’abbandono e conservato l’integrità delle risorse anche in favore delle generazioni future.” (...) “la gestione collettiva delle risorse non solo consent[e] alle comunità di soddisfare i propri bisogni, ma allo stesso tempo, a mezzo di accordi diretti a disciplinare il godimento comune dei beni delle comunità attuali e future, [è] idonea a salvaguardare l’ambiente più del diritto di proprietà sancito e tutelato dai codici civili modellati sull’esempio del codice Napoleone”. (...) “il regime di tipo pubblicistico che regge i beni collettivi ha impedito, infatti, la divisione dei beni e la distruzione della ricchezza. Si tratta di un regime autoimposto”. Lo studio della Tomasella, che ha proposto anche modalità più flessibili ma ben rispettose della estensione, destinazione e valore dei beni regolieri, evidenzia che “l’interesse ambientale sotteso ai beni regolieri non viene conseguito grazie ad una gestione completamente immobile. L’immobilismo, oltre a non essere conforme allo spirito e alle consuetudini regoliere, depaupera il patrimonio della Regola.” Opportunamente menziona la Parabola dei talenti ed il rischio che i regolieri di oggi non riescano a mettere a frutto le poche ma importanti risorse di cui dispongono e che in passato hanno consentito di sopravvivere in un ambiente ostile. Poiché “chi ha molto riceverà ancora di più e sarà nell'abbondanza; chi ha poco, gli porteranno via anche quel poco che ha”, anche ai regolieri negligenti potrà accadere di perdere i loro beni e d’essere gettati fuori, nelle tenebre, a piangere come disperati (Elisa Tomasella, Le proprietà collettive dell’Arco Alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali, in Aa. Vv., Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?, Atti del 47.mo corso di cultura in ecologia, Università degli Studi di Padova, San Vito di Cadore 6-8 giugno 2011, a cura di Vinicio Carraro, Tommaso Anfodillo, Padova 2011, pp. 101-120).

Il nome di Elinor Ostrom è menzionato anche da Irene Palmisano, La cura dei beni comuni, “Archivio Scialoja-Bolla”, 2012, n. 1, pp. 345-354: “Assistiamo, giorno dopo giorno, ad una velocità e con una intensità inimmaginabili fino a un decennio fa, alla “tragedia dei beni comuni” come la definiva Garret Hardin nel lontano 1968: un depauperarsi continuo e irrimediabile di risorse naturali, di beni e valori che compongono l’inestimabile biodiversità naturale, sociale e culturale del pianeta; l’accentuarsi di una tendenza al consumo senza limiti di questi beni” (...). “I beni comuni sono al centro, dunque, di un conflitto sull’idea stessa di sviluppo, di futuro del pianeta (...). Questo è esattamente il dilemma dei beni comuni: come stabilire e rendere efficaci norme e regole per l’uso di questi beni, fondate su nuove forme di razionalità, regole sociali e reciprocità (...). Gli studiosi più avveduti hanno da tempo affrontato questi temi, fra tutti il Premio Nobel per l’Economia Elinor Ostrom, offrendo spunti importanti ad un mondo politico che però appare sordo e cieco e soprattutto inane, cioè incapace di assolvere responsabilmente al proprio compito (...). Mentre questo dilemma resta aperto a livello globale (dove le istituzioni sopranazionali pubbliche si manifestano in tutta la loro inefficacia e quelle private si dimostrano essere solo l’iperbolica rappresentazione di interessi tanto forti quanto concentrati), è giusto registrare (...) come vi siano realtà e istituzioni, non connotabili lungo l’asse stato-mercato, che sono state in grado di amministrare a livello locale sistemi di risorse naturali, di beni, relazioni, di sistemi sociali, conseguendo risultati sostenibili nel tempo ed efficaci”.

Andrea Leonardi, Comunità alpine e capacità di autogoverno, “Archivio Scialoja-Bolla”, 2015, n. 1, pp. 1-17, osserva che “le ricerche condotte dalla Ostrom non si sono semplicemente limitate ad una valorizzazione dei ‘beni comuni’, ma hanno piuttosto reso evidente come le comunità siano state esse stesse in grado di generare le regole e i limiti, formali e informali, rispettati da tutti, per l’utilizzo di tali beni, arrivando, grazie al loro operato a conseguire risultati migliori di quelli che – a confronto – avrebbero potuto raggiungere il mercato o lo Stato”.

Geremia Gios, Demani civici vivi e vitali per collettività locali sostenibili, “Archivio Scialoja-Bolla” 2015, 1, pp. 105-119, è dell’opinione che negli ultimi tempi “il ruolo delle modalità di gestione collettiva, in alternativa allo Stato ed al mercato, è stato enfatizzato”, ma concorda sul valore attuale delle proprietà collettive: “Se si ritiene che l’ambiente sia una risorsa scarsa, avente caratteristiche di multifunzionalità, sul quale non sempre è possibile introdurre diritti di proprietà e che può essere modificato irreversibilmente dall’azione antropica, dal punto di vista della teoria economica vi sono situazioni in cui gli usi civici tradizionali possono avere un ruolo anche nell’attuale contesto socioeconomico”.

Stefano Nespor, Tragedie e commedie nel nuovo mondo dei beni comuni, “Rivista giuridica dell’ambiente”, XXVIII (2013), pp. 665-685, ha esposto con chiarezza le questioni, evidenziando che “l’esplosione di interesse”, la “ragionevole follia” ovvero l’ampio dibattito giuridico ed in vari altri ambiti riguardo ai beni comuni in seguito al referendum del 2011 sull’acqua pubblica, in realtà era una “tardiva scoperta” da parte dell’ “eurocentrico interesse dell’Italia e di molti paesi europei”.

Alla Ostrom (pp. 23 e 42) ed anche alle nostre Regole (pp. 27, 28, 29, 48) fa riferimento Alessandro Dani, Il concetto giuridico di ‘beni comuni’ tra passato e presente, “Historia et ius”, n. 6 (2014), pp. 1-48, esaminando il regime dei beni comuni dal diritto romano a quello moderno, fino all’attuale dibattito di economisti e filosofi ed alle proposte normative nazionali ed internazionali. Dani concorda con la Ostrom sui “tratti salienti” delle variegate, esemplari e durature esperienze giuridico-istituzionali dei beni “comunitari” del nostro Medioevo ed Età moderna, che elenca:
“1) La dimensione comunitaria, intesa come modello antropologico frutto di mentalità, valori, modalità peculiari di strutturazione della vita sociale, con pregi e difetti, necessitata dalle condizioni di vita del tempo.
2) Connessa a ciò, una rilevante partecipazione popolare al governo della comunità, che spesso si traduceva nell’attribuzione ad assemblee molto larghe, di tutti i capifamiglia nelle realtà minori, delle decisioni più rilevanti e nella previsione di un ampio accesso (ma inteso anche come dovere sanzionato) alle cariche comunali, mediante meccanismi di cooptazione, sorteggio e rotazione.
3) Il riconoscimento, pressoché universale, di ampi margini di potestà autoorganizzativa e normativa (statuti, patti e consuetudini), entro però un contesto giuridico più ampio, che faceva perno sul ruolo dei giuristi formatisi sulla tradizione romanistica del diritto comune.
4) Istanze organizzative spesso simili perché dettate dall’esperienza popolare e da esigenze naturali oggettivamente ricorrenti nelle realtà rurali in funzione di un utilizzo ottimale delle risorse del territorio, indispensabili ovunque per garantire la stessa sopravvivenza umana.
5) L’inserimento delle varie situazioni in un medesimo quadro dei diritti reali che contemplava la scomposizione del dominio non solo in diretto ed utile, ma anche in più domìni utili, in base alle diverse utilità che i beni potevano rendere all’uomo, nonché la presenza di usi, limitazioni, obblighi che condizionavano la proprietà privata in funzione delle esigenze delle comunità.
6) Collegato all’ultimo aspetto, l’inserimento delle comunità in una rete di fedeltà ed in compagini statali che implicavano, assieme ad un alto dominio del superiore sul territorio, anche un potere/dovere di assicurare pace e giustizia e dunque anche di vigilare sul corretto utilizzo e sulla conservazione dei beni di fruizione collettiva, di ovviare ad usurpazioni e contrasti, anche tra comunità limitrofe.” Opportunamente osserva: “Non credo, dal punto di vista storico, si possa mettere in dubbio che nei territori italiani siano effettivamente esistite, per sei-settecento anni ed oltre, decine di migliaia di comunità rurali, di castello, cittadine delle più varie dimensioni che, pur nella loro eterogeneità, dettero corpo ad un elasticissimo, elaborato – per molti versi oggi sorprendente – modello di governo locale, anche complesso e ricco di aspetti partecipativi e solidaristici. Ciò non toglie, ma è un discorso ancora diverso, che esso abbia presentato anche aspetti che appaiono alla nostra sensibilità odierna negativi o discutibili” (p. 24).

11 - Luigino Bruni, L’economia nell’era dei beni comuni: la tragedia, le sfide, le possibili soluzioni, in www.matematica.unibocconi.it al 30.11.2016. Bruni spiega che “l’idea-base del rapporto consumo privato/bene comune su cui si è fondata la scienza economica era più o meno la seguente: una società civile, dove ciascuno persegue semplicemente i propri interessi, funziona normalmente bene (meglio, se confrontata con altri sistemi) perché la cura dei propri interessi è espressione nei cittadini di virtù civile. Se ad esempio ogni cittadino di Milano si occupa dell’educazione dei propri figli, fa bene il proprio lavoro, sistema il suo giardino e paga le tasse per finanziare la produzione dei beni pubblici, se cioè a Milano abbiamo tanti prudent men, come li chiamava Adam Smith, automaticamente anche la città è virtuosa. È questa, nella sua essenza, l’idea racchiusa dalla metafora più famosa del pensiero economico, quella della smithiana “mano invisibile”: ciascuno persegue interessi privati e la società si ritrova provvidenzialmente anche con il bene comune”. Nel recente La foresta e l’albero. Dieci parole per un’economia umana, Milano 2016, Bruni rileva l’inadeguatezza delle tradizionali parole d’ordine dell’economia e della società (“efficienza”, “competizione”, “merito”, “innovazione” ecc.) e la necessità, anche per l’albero dell’economia, di recuperare ed alimentarsi di una serie di “virtù preeconomiche”.

12 - Enrico Camanni, Città e montagna: l’unico turismo possibile, in Aa. Vv., Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio, cit., pp. 6-8. Nel suo recente volume Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia, Roma-Bari 2016, dove descrive anche il “turismo da cartolina illustrata” e “la sagra dei luoghi comuni” delle auronzane Tre Cime (pp. 77-86) nonché tratteggia la “triste storia del Vajont” (pp. 151-158), Camanni usa parole molto dure verso le scelte turistiche: “Sulle Alpi è più evidente che altrove che un turismo responsabile è l’opposto del turismo di massa. Il turismo dolce consiste nel valorizzare le differenze e le peculiarità di ogni luogo” (...). “Il turismo intensivo, al contrario, segue modelli di promozione e sviluppo applicabili dalle Alpi a Dubai, dove si può sciare anche in mezzo al deserto. L’ambiente non fa alcuna differenza, la neve è artificiale e la ‘montagna’ è solo un bel piano inclinato. Come ogni industria pesante il turismo di massa ha bisogno di crescere continuamente per non morire. A dispetto della crisi economica, del costo dell’energia, del riscaldamento globale, dell’invecchiamento della popolazione, e anche della crisi culturale del vecchio modo consumista e passivo di ‘fare montagna’, l’industria del turismo è costretta a investire ininterrottamente in nuovi impianti, nuovi cannoni, nuove offerte e nuove attrazioni, mangiandosi una bella fetta di finanziamenti pubblici”. Camanni immagina anche la Montagna del futuro: “le Alpi svettano sempre su un mare di smog, ma non basta più tuffarsi in quel mare per trovare un posto fisso e uno stipendio garantito. Le fabbriche chiudono e il precariato è dappertutto, in centro e in periferia. L’equazione città-lavoro e montagna-svago si è fatta sempre più imperfetta. C’è chi scende in pianura per emanciparsi dal passato e chi sale in montagna per inventarsi un futuro. Chi sale è il ‘nuovo montanaro’ che ha scelto di abitare in terre alte, e il salire è già azione ribelle di per sè perché sovverte le leggi della fisica. Montanaro o alpinista che sia, chi sfida la gravità va sempre in direzione contraria. Inoltre il nuovo montanaro porta linfa vitale perché ha deciso liberamente di vivere in un ambiente difficile, spinto da una motivazione etica ed ecologica. E’ montanaro per vocazione, non per nascita o condanna, probabilmente sarà l’unico abitante delle Alpi di domani. I nuovi montanari sono molto critici verso la macchina del consumo e molto affascinati dai controvalori della montagna: la lentezza, l’immaterialità, il silenzio, la vita comunitaria, i ritmi naturali. Spesso sono più conservatori dei ‘vecchi montanari’ perché difendono quei valori, li cercano, li rinnovano” (pp. 223-226). Il senso del libro, che celebra i montanari che hanno saputo ribellarsi e resistere, è che “se non ci parlano di cose alte, se non ci esortano una volta ancora ad alzare gli occhi e aprire la mente per guardare oltre, allora le Alpi non esistono” (p. 226).

13 - Diego Cason, Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità, in Aa. Vv., Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio, cit., pp. 71-84.